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Ragione e Sentimento - Atto Secondo "E se Marianne avesse perdonato Willoughby?" Questa pare sia la vera domanda all'origine del sequel di Jane Odiwe: una seconda chance, oppure, una vicenda alternativa a quella del suo romanzo d'ispirazione. Un'ottima domanda, non c'è che dire...essa scatena naturalmente conseguenze interessanti, una trama che si complica nuovamente conferendo vita ad un secondo atto di una storia che ci pareva conclusa nel trionfo della Ragione e del Sentimento. L'attenzione narrativa della Odiwe, concentrata in particolare nella descrizione di una perfetta atmosfera austeniana, assorbe completamente la mente del lettore, riconducendola nelle vite d'inchiostro delle sorelle Dashwood, quasi non l'avesse mai lasciate...è un processo emotivo inconsapevole ed un attimo più tardi la storia riprende il suo corso...ma non come avremmo facilmente immaginato. La Odiwe sceglie di salvare l'unico personaggio imperdonabile, il solo a cui non avremmo pensato, se non negli stessi termini negativi in cui lo avevamo dimenticato. Willoughby è umano, ci rammenta l'autrice, ergo capace di innamorarsi o fallire, come ogni individuo dotato di cuore è un connubio di luce e di ombra, di bene e di male, per questo meritevole di un'altra occasione, riscatto che nessuno, persino Aunt Jane, avrebbe promesso. Eppure, la romantica Marianne, moglie devota dell'ineguagliabile Colonnello William Brandon, si ritrova ad affrontare le tribolazioni del suo recente passato, per l'inatteso ritorno nella sua vita di John Willoughby, attraente come sempre, ma, stavolta, esitante, impacciato di fronte a lei, finanche modesto, soprattutto, incredibile nella sua veste di pentito! E se Willoughby è profondamente cambiato, quasi fosse un'altra persona, Marianne ricade in un istante nell'ingenuità che di lui l'aveva resa vittima; la regressione non ci parrebbe ragionevole se non fosse preceduta dall'insicurezza e dai timori generati dalla prepotente gelosia verso Eliza e la memoria che quest'ultima porta in eredità, che la relega (a suo avviso) solo al secondo posto nel cuore di Brandon. Probabilmente, una tale momentanea involuzione dell'animo di Marianne trova giusta spiegazione in questo continuo travaglio interiore, quello che non mi ha convinto è il mutamento (forse anche genetico?!) di Willoughby, sebbene umano, sebbene intelligente, eppure soggetto al proverbio (ahimé, sempre veritiero) del noto "Il Lupo perde il pelo, ma..." Personalmente, avrei potuto, forse, accettare il cambiamento di Willoughby in seguito a cruciali eventi nella sua vita, ad ogni modo, non così poco tempo dopo averlo lasciato felice padrone del proprio destino; ciononostante, il suo ritorno consiste in una prova del nove per Marianne, è un'ulteriore confronto con i propri sentimenti, una seconda crescita interiore e, come se ce ne fosse bisogno, una conferma della superiorità eclatante di Brandon rispetto a Willoughby, anche in questa nuova veste angelica! Il romanzo intreccia i fili del ricamo precedente, ai nuovi, abilmente intercalati dalla Odiwe...è stato un vero piacere conoscere una Margaret (la minore delle sorelle Dashwood) così brillante, indipendente e, se vogliamo, moderna! Che ella fosse la summa dei caratteri antiteteci delle sorelle maggiori era auspicabile, ma che mutasse il suo mite silenzio d'osservatrice in una personalità ben definita e carica di energia, non l'avremmo immaginato, pur nella ragionevolezza di questa possibilità! Margaret è un personaggio bellissimo! Come uscita da una favola di Andersen, da brutto anatraccolo destinato nell'ombra, ha dismesso il suo grigio piumaggio per aprire sicura le grandi, candide ali di cigno, forte, finalmente, della propria identità. Sono debitrice verso la Odiwe per avermi contagiato con l'entusiasmo di questo personaggio! Margaret (che dopo poche righe della sua comparsa in scena avevo già familiarizzato in "Meg") è passionale come Marianne e assennata come Elinor, magrado l'evidenza della contraddizione, questa definizione le calza a pennello! E' la giusta conseguenza all'altalena degli opposti, in una parola, l'equilibrio tra essi, con un pizzico di spensieratezza ad aggiustarne il peso. La conferma del suo ottimo incedere nella vita, è palese nel rapporto con il suo personalissimo "Willoughby", nel ruolo certamente migliore di Henry Lawrence, davanti alle cui avances, Meg pare sciogliersi come neve al sole, riportandoci pericolosamente le memoria all'esperienza di Marianne, lasciandoci, però, interdetti di fronte al suo diverso modo di considerare la situazione in cui si è consapevolmente (e già questo fa la differenza) infilata. L'intreccio annoda e riscioglie i fili principali sui passi di Marianne-Brandon-Willoughby e di Margaret-Henry, coinvolgendo progressivamente vecchi amici e nuove conoscenze, rispolverando i ritratti dei meravigliosi characters creati da Aunt Jane e dipingendone di nuovi su chiaro suggerimento di quest'ultimi, in un girotondo di tè, danze e non-sense che rinnovano la voglia di dissolverci in inchiostro, per respirare la stessa carta di quei personaggi incredibili, senza dimenticare di evadere l'attenzione inopportuna dell'inarrestabile Mrs Jennings! Unico appunto negativo, ma sempre da un punto di vista personale, mi è mancata molto Elinor, confinata a fare la saggia ed inflessibile madre (più che sorella maggiore), malgrado, il suo sguardo attento fosse sempre vigile, ma troppo pronto ad elargire sentenze, privandola del suo lato romantico ed insicuro che sappiamo esistere, sebbene in incognito. Un sequel interessante, da prendere in considerazione per una versione italiana, soprattutto per le "possibilità" che mette in gioco, alternative più o meno condivisibili, ma certamente da acclamare per l'audacia che le contraddistingue.